Jaime Poblete Aravena è nato a Santiago del Cile nel 1981. Vive e lavora ad Erba (CO).
Ha studiato Scenografia e Storia dell’Arte presso l’Universidad de Chile. Dal 2000 lavora come scenografo per diverse compagnie teatrali a Santiago del Cile.
Inizia il suo lavoro pittorico nell’atelier Artefacto dell’artista cileno Francisco Gonzalez, dove posteriormente lavora come professore di pittura.
Dal 2002 al 2007 collabora come restauratore al Museo d’Arte Contemporanea MAC di Santiago del Cile.
Dal 2008 al 2010 vive e lavora a Valencia, Spagna, dove frequenta l’Accademia di Belli Arti della Universidad Politecnica di Valencia.
La sua poetica pittorica è principalmente gestuale; le tematiche affrontate parlano d’identità, vincolando lo spazio individuale con quello territoriale. In parallelo alla pittura, ha sperimentato tecniche grafiche tra le quali la litografia e l’incisione, performance e teatro come linguaggio corporale.
“Poblete pratica una sorta di asepsi concettuale quasi purista, in cui gli elementi abbiano una congiunzione estetica. Racconta il cammino dell’abbandono del razionale per ancorasi all’intuitivo e tornare a guardarsi nei propri gesti.
Il corpo presentato da Poblete può essere definito come il-corpo-in-azione.
Il suo corpo lascia tracce che prendono forma da una intuizione non concettuale.
Ciò che Poblete rappresenta nella sua astrazione, o semi-astrazione, è il processo del gioco, della lotta contro se stesso.
In tal modo, lo strato degli oggetti presentati che emergono nell’opera, costituiscono semplici gestualità di linee e percezioni semantiche.
Per quanto riguarda lo strato degli aspetti schematizzati, ossia lo stile, si può ritenere che Poblete si affidi al processo di esecuzione. Non in modo casuale, bensì mediante un discorso pittorico impostato sin dall’inizio come dialogo, uno specchio, una seconda pelle.
Dopo i ripetuti tentativi di avvicinamento all’immagine, l’unica cosa concreta che resta da esprimere è la pulsione di accumulo; per questo Poblete lavora con supporti che definisce “carichi”.
La ripetizione di un gesto necessita che si prenda coscienza del processo e si abbracci inevitabilmente una dimensione temporale quale il movimento dell’esecuzione e il mettere in gioco il fatto pittorico. Da ciò provengono i grandi formati delle sue opere, colmi di gesti apparentemente automatici, ma in realtà ben guidati da una sorta di determinazione rituale: l’autore invoca scampoli di una calligrafia cromaticamente arcaica per tornare a giocare, presentare e rappresentare il corpo-parola a partire da frammenti. Il pittori che gioca con i tratti che sostengono il suo stesso disegno, impalcatura del supporto che si presta a una specie di gioco tassidermico: la tela viene strappata e ricomposta.
Già la tela bianca porta in sé informazioni da rivelare, a partire di essa, l’apertura, la polifonia monocroma che guida il movimento in una struttura di macchie casuali che creano una trama, una costruzione-scheletro cromatica, un passaggio tra il corpo e il colore.
La macchia come vestigio dell’esecuzione che ha come conseguenza l’immagine”
Emilio Morales, filosofo, estratto da Visioni, corpi e latitudini, 2016.